Inoltrata al Servizio geologico una nota sul monitoraggio della paleofrana di Masarach
I terrazzi sulla sommità della paleofrana del Masarach al momento dell’evento sismico del 1976 erano ancora utilizzati per la pratica agricola che, un po’ per la natura del terreno ed un po’ per la posizione esposta al sole e riparata dai venti dal versate roccioso soprastante, ben si prestava soprattutto alla coltura della vite.
Sui quei terrazzi si trovavano quindi gli edifici adibiti a ricovero per animali, a deposito di attrezzi agricoli e naturalmente a cantine. In prossimità del vecchio tracciato stradale si trovavano inoltre una nota locanda ed alcune abitazioni nelle quali vivevano stabilmente una ventina di persone.
A memoria d’uomo la condizione e l’evolversi della paleofrana non creava soverchi problemi alla routine di quei luoghi. Gli eventi alluvionali 1966 hanno invero accentuato qua e là lo scivolamento dei terrazzi più esterni, ma tali movimenti verso il basso storicamente venivano recuperati con l’edificazione di muretti a secco tra un livello e l’altro e con l’aggiunta di qualche scalino in pietra che ridisegnavano in modo suggestivo i contorni degli appezzamenti.
La situazione muta negli anni ‘80 e ‘90 poiché, anche a seguito dell’evento sismico del 76, vanno ad innestarsi sull’area alcuni interventi di protezione spondale sul torrente Arzino che coinvolgono anche il piede della paleofrana e, proprio sul sito del Masarach, un progetto di riprofilazione dei versanti finalizzato all’attività di cava e recupero agricolo dell’area mediante l’impianto di vigneti. Alla luce degli studi sopracitati, tali interventi, che sottendevano tutti uno scopo di messa in sicurezza dell’area, si dimostravano già al tempo profondamente sbagliati ed in grado di determinare esiti esattamente contrari allo scopo di messa in sicurezza dichiarato, ma non solo.
In questa situazione l’Associazione è riuscita, con tantissima fatica, ad evitare che fosse aperta la cava sul corpo di frana, limitare parzialmente l’edificazione dei pennelli (primi anni ‘80) mentre a nulla sono valse le obiezioni alla posa della scogliera spondale (1995). Un dibattito sulla sicurezza drogato, fortemente finalizzato a edificare opere, si è portato dietro come conseguenza una accentuazione dello stato di pericolo dell’area, classificata P4 nel P.A.I., che ha di molto allontanato anche solo l’idea di pensare ad un riutilizzo e a una funzione attiva dell’area per scopi di utilizzo leggero, agricolo, ricreativa e turistica dell’area pur escludendo l’impiego degli edifici esistenti per un uso abitativo permanente.
Il torrente Arzino all’altezza della paleofrana appare oggi come la dimostrazione lampante dell’inefficienza di questo tipo di opere di difesa spondale ed è il manifesto di come un approccio orientato unicamente ad una gestione idraulica dei corsi d’acqua sia non solo inefficace, ma anche dannoso.
Il problema per l’associazione è capire cosa si intende fare ora in considerazione delle risultanze dello studio in considerazione appunto degli esiti venutisi a determinare dai precedenti interventi di protezione spondale. La preoccupazione come detto riguarda in particolare il pericolo, per noi evidente, che la banalizzazione ambientale del sito sotto l’etichetta della sicurezza vadano a sopprimere un valore ambientale, geologico e naturalistico di valore.
Esito dello studio
Abbiano letto la relazione tecnica della SRV Indagini Geologiche Srl firmata dal geologo Valent. Si tratta di un documento fatto molto bene e che con tre sondaggi permette di tracciare con più precisione la superficie di scivolamento della frana.
La tipologia della frana, e sostanzialmente l’andamento e la profondità della superficie di scorrimento, sono le stesse evidenziate da più di uno studio sulla paleofrana effettuati dall’ex Servizio Georisorse e Territorio dell’Università di Udine. In particolare, sulle risultanze geologiche della relazione del prof. A. Zanferrari del febbraio 1994 consegnata anche al Servizio Geologico FVG, concordano tutte le successive relazioni.
La Regione FVG da quel periodo monitora la frana attraverso l’inserimento di alcuni caposaldi che ora, per produrre il lavoro di analisi relativo al periodo 2015-18, sono stati potenziati e che permettono di conoscere ancora più a fondo le dinamiche in atto sul sito. In estrema sintesi lo studio commissionato dalla Regione FVG aggiunge conferme a quanto già conosciuto con una serie più completa di dati.
Nelle conclusioni lo studio attesta la presenza di movimenti superficiali di normale entità su tutto il fronte della paleofrana, propone di estendere il monitoraggio alle aree limitrofe anche con lo scopo di indagare meglio su alcune anomalie riscontrate, individua nella dinamica fluviale dell’Arzino un influsso diretto sull’instabilità superficiale e suggerisce infine la possibilità di operare una rettifica dell’alveo spostandolo sulla sx in corrispondenza dei pennelli demoliti.
Sulle risultanze dello studio e sulle conclusioni dello stesso in particolare possiamo fare le seguenti considerazioni.
- La presenza di movimenti franosi più o meno superficiali è una problematica che, pur con diverse caratteristiche, è abbastanza diffusa nella zona e si espande in direzione ovest da Anduins fino a Clauzetto. L’instabilità diffusa dei versanti in quest’area è una costante tanto che le comunità hanno imparato a conviverci senza grandi problemi. Questa propensione all’accettazione del rischio non ha tuttavia impedito l’affermarsi nella zona di un business della sicurezza fine a se stesso e, spesso, di dubbia utilità per il territorio.
- È giusto che si continui a monitorare i siti sensibili per capire appieno ed avere riscontri sulle dinamiche geologiche e sulle evoluzioni in atto. Ma va fissato anche un limite alla liceità e all’estensione di tali misurazioni in ragione non tanto del valore economico in gioco, quanto di un più ragionevole impiego delle risorse che dovrebbero essere indirizzate al corretto utilizzo e manutenzione del territorio e per nulla alla sua artificializzazione.
- La dinamica fluviale dell’Arzino può influire ma non determina certamente lo scivolamento del corpo della paleofrana. In particolare influisce puntualmente oggi in corrispondenza di un grande masso precipitato in mezzo all’alveo che, occludendo il deflusso dell’acqua nei regimi di piena, devia l’acqua in sponda dx determinandone un erosione del piede. Si tratta di un problema puntuale e non la causa del fenomeno.
- Per ridurre le dinamiche evolutive lo studio suggerisce di rettificare l’alveo spostandone l’asse sulla sx. Tale azione, spropositata in rapporto alla causa che origina la deviazione della corrente, richiederebbe la costruzione di imponenti opere di contenimento con gravi alterazioni della dinamica fluviale e non trascurabili peggioramenti dello stato naturale del corso d’acqua ivi compresi i danni consistenti alla fauna acquatica. Non parliamo qui di impatto sul paesaggio su un torrente che è considerato uno dei 3 corsi d’acqua meglio conservati in Regione.
L’intervento pare particolarmente sproporzionate anche in considerazione dell’assenza di elementi che permettano di definire la presenza di un rischio: cosa c’è da proteggere e quale pericolo incombe su di esso? Si intende la Strada Regina Margherita (che comunque è ben lontana)?
Cosa fare
Partiamo da quest’ultima considerazione: se è vero che il rischio è 0, o comunque è bassissimo come noi crediamo, le ipotesi da prendere in considerazione per l’Associazione rimangono 2:
- lasciare tutto com’è e fare in modo che il torrente ricrei un equilibrio idraulico naturale anche in presenza del nuovo trovante accanto a quelli che si sono staccati dal versante e li precipitati in epoche precedenti.
- demolire il trovante al centro dell’alveo attivo addossarne, se possibile, i maggiori frammenti al piede della paleofrana in sponda dx con lo scopo di rallentare i processi in atto in attesa delle future ed ineludibili evoluzioni del sito. Stessa sorte riservare anche ai pennelli scalzati e scivolati verso il centro dell’alveo che contribuiscono a ostacolare il deflusso di piena e soprattutto a deviare verso il piede della frana una parte considerevole delle acque di piena.
Conclusioni
Non è la prima volta che osserviamo che opere di difesa spondale, spesso edificate a difesa del nulla, hanno in realtà determinato sensibili peggioramenti del regime idraulico con sottoescavazione dei manufatti, variazioni in altezza degli alvei, spostamento e/o ampliamento dei fenomeni erosivi.
Questo tipo di interventi, che richiedono anche non poca manutenzione, assieme ai prelievi d’acqua per scopi irrigui e idroelettrici e alla creazione di invasi sono considerati i maggiori responsabili della perdita di biodiversità che ha coinvolto tutte le specie di acqua dolce anche quelle più comuni.
Sono problemi che chiediamo vengano tenuti nella giusta considerazione e che, nel caso si ritenesse utile prevedere degli interventi migliorativi, sarebbe opportuno fossero valutati in un’ottica di pluralità degli interessi dove tutti gli aspetti vengono considerati e finalizzati, oltre che al ripristino della naturalità del corso d’acqua, anche a dare risposte in termine di prospettiva al complesso degli elementi ecosistemici che lo compongono.
E fare in modo che l’Arzino continui la sua incessante ricerca di equilibrio con la frana del Masarach, un’azione iniziata 40.000 anni fa e interrotta, senza motivazioni condivisibili e senza alcun risultato, dai volonterosi interventi di regimazione di 35 anni fa.