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Agricoltura e tensioni internazionali: il Nord Italia deve intraprendere la transizione agroecologica per aumentare la capacità dell’agricoltura di resistere agli shock interni ed esterni

Ridurre l’intensità della produzione zootecnica e aumentare la differenziazione delle colture per sostenere reddito agricolo e autosufficienza alimentare: le misure-tampone chieste dagli agricoltori all’Europa non ci metteranno al sicuro dai futuri shock se non sviluppiamo una agricoltura più sostenibile 

Sull’agricoltura della pianura padano-veneta si sta abbattendo la tempesta perfetta, una combinazione di avversità di mercato internazionale e di crisi climatica, di fattori esterni ma anche interni, capace di minacciare la stessa sopravvivenza di migliaia di aziende, soprattutto tra quelle dedite al prevalente orientamento zootecnico.

Si comincia con l’aumento dei costi energetici, con i suoi effetti sui costi della meccanizzazione agraria e, soprattutto, sul costo dei fertilizzanti azotati, di cui la monocoltura del mais, coltura prevalente del nord Italia, è particolarmente esigente. Costi che potrebbero essere sensibilmente ridotti, sia ricorrendo a tecniche di agricoltura rispettosa della struttura del suolo, sia ottimizzando e riducendo l’utilizzo di fertilizzanti sintetici, per anticipare gli obiettivi della strategia Farm to Fork ma anche per ridurre i costi aziendali. E invece continuiamo ad applicare ai campi carichi di azoto che eccedono il fabbisogno delle colture, inquinando acqua e aria.

Le cose vanno anche peggio sul fronte degli input di materie prime, da cui la zootecnia padano-veneta è sempre più dipendente avendo da tempo perso gran parte della sua capacità di autoapprovvigionamento. Sul mais si è abbattuto l’effetto combinato degli accaparramenti cinesi, in forte crescita dopo l’uscita dall’epidemia di peste suina, e della guerra che impedisce le esportazioni da Ucraina e Russia. Il risultato sono prezzi mai visti fino ad ora. Le cose vanno molto male anche per i prezzi della soia di importazione, da cui l’Italia dipende per oltre l’80% del fabbisogno zootecnico. In questo caso le importazioni derivano in gran parte dal continente sudamericano, dove le coltivazioni, spesso OGM, si espandono sempre più sui terreni sottratti a foreste e praterie, la loro coltivazione contribuisce dunque fortemente proprio a quel cambiamento climatico che minaccia il futuro dell’agricoltura. Anche sul versante dei foraggi proteici, come la soia appunto, le cose sono destinate a peggiorare, visto il venir meno dell’import di farine di semi dall’est Europa.

Ma anche le risorse interne non vanno bene: in primis l’acqua, che quest’anno manca. In Lombardia, per esempio, la regione italiana più dotata di risorse idriche destinate all’irrigazione dei campi, si registra un deficit di oltre il 60% di risorsa idrica: i grandi laghi sono a secco, vuoti anche gli invasi idroelettrici, e soprattutto in montagna manca il 70% della neve che di solito, in questo periodo dell’anno, costituisce la scorta idrica più abbondante. Ogni annata meteorologica fa storia da sé ed è impossibile fare previsioni per il futuro, ma è un dato che il clima appare sempre più una variabile impazzita, e il quadro è previsto in aggravamento proprio a causa delle emissioni climalteranti, a cui il settore zootecnico contribuisce in modo importante. In mancanza di acqua, la richiesta di avere più terre da coltivare a mais rischia di essere del tutto inutile, il mais richiede moltissima acqua per arrivare a maturazione, e senza riserve idriche il rischio che ne manchi è molto forte per la prossima estate.

Le cose vanno male anche per il suolo di cui, come noto, ce n’è sempre di meno: basti pensare che nelle cinque regioni del nord, nell’ultimo quindicennio, secondo i dati ISPRA, se ne sono persi ben 45.000 ettari (105.000 in tutta Italia). Se coltivata a mais, questa superficie avrebbe potuto produrre ogni anno 500.000 tonnellate di granella. Ma sul cemento il mais non cresce.

Al contrario, proprio sul mais scontiamo gli effetti di un quindicennio di scelte non fatte, che hanno portato il nostro Paese dall’essere quasi autosufficiente a dipendere dall’estero per il 50% del proprio fabbisogno per il mais da destinare agli allevamenti. Abbiamo lasciato che il mercato scegliesse per l’Italia, e visto che il mercato proponeva prezzi bassi, abbiamo ridotto la produzione interna in cambio di 4,4 milioni di tonnellate di granella importata, e di questi almeno un milione di tonnellate di provenienza Ucraina. Nel frattempo sui campi padano-veneti il mais per la zootecnia ha lasciato il posto al mais da trinciato per alimentare impianti per biogas: si stima che nelle cinque regioni ne siano coltivate superfici per circa 200.000 ettari, se la loro coltura venisse convertita a mais da granella basterebbe per produrre fino a 2,5 milioni di tonnellate, più di tutta quella che importiamo da Paesi extra UE!

Legambiente sceglie questo momento di grave crisi per scendere in campo e chiedere un cambiamento delle scelte di produzione agricola dell’intera Pianura Padana, contestando le istanze retrograde che agitano una parte del mondo agricolo. “La richiesta di mettere a coltura aree destinate alla conservazione della biodiversità, o quella di soprassedere agli obiettivi europei di riduzione dell’impiego di pesticidi e fertilizzanti, vanno in direzione esattamente opposta a quella richiesta per una transizione verso un’agricoltura più sostenibile, più autosufficiente e meno suscettibile agli shock esterni. E’ giusto chiedere aiuto per le imprese in forte difficoltà, ma è sbagliato non raccogliere i segnali chiarissimi della necessità di cambiamento: se dobbiamo mettere a coltura i prati o le zone umide, e allo stesso tempo continuare a usare le coltivazioni di mais per alimentare i digestori che dovrebbero invece produrre biogas con materie di scarto e rifiuti, vuol dire che stiamo colpevolmente sprecando una crisi che richiede azioni strutturali, e non solo iniezioni di sussidi” dichiarano congiuntamente i/le presidenti di Legambiente Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte e Veneto.

Il giudizio dei rappresentanti ambientalisti delle 5 regioni del Nord Italia è severo. “Il sistema agroalimentare padano-veneto è rotto, non è più possibile continuare ad esasperare una specializzazione produttiva, quella zootecnica intensiva, che ha eccessivi fabbisogni di input rispetto a quelli che possono essere ragionevolmente prodotti nel territorio. Denunciamo che il ‘Made in Italy’ alimentare del nord Italia è ormai una produzione completamente sradicata, per quanto riguarda le materie prime, da quel territorio che dice di voler valorizzare. Produciamo carni, uova, formaggi e salumi che derivano da materie prime di importazione, sottostiamo alle regole e ai prezzi di mercati globali senza più avere alcun margine per affrontare gli shock di quei mercati, se non chiedendo sempre più sussidi all’Europa. E allo stesso tempo produciamo un paesaggio agrario sempre più povero di biodiversità e inquinato, e immettiamo nelle acque e in atmosfera enormi quantità di inquinanti e di gas serra: è il momento di cambiare, scegliendo l’agroecologia, la differenziazione di colture e produzioni, la scelta del biologico e della valorizzazione di prodotti che possano certificare il loro autentico radicamento nelle colture del territorio. Se l’agricoltura italiana si accoda ai tanti che, in Europa, stanno cinicamente approfittando del drammatico evento bellico per smantellare il Green Deal, allora stiamo facendo un errore storico, che non possiamo che contestare, come ambientalisti, come consumatori e come contribuenti. Noi lavoreremo per evitare che si apra una faglia tra agricoltura e società, che potrebbe produrre danni di sistema molto più gravi e costosi di quanto i sussidi europei possano coprire, e per farlo cercheremo la collaborazione di tutti quegli agricoltori e allevatori, a partire dai biologici, che sceglieranno di puntare su qualità e salubrità dei prodotti e del territorio”.

 

Contributo di Legambiente Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte e Veneto.

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