Il verde delle strutture ospedaliere
C’è un settore del verde di cui si parla pochissimo, quello che circonda gli ospedali e le strutture sanitarie in genere. È l’area che accoglie chi entra dove sofferenza e dolore sono di casa, con la funzione di mettere a proprio agio operatori, degenti e visitatori.
Al verde è stata affidata la funzione di fascia tampone, quasi un escamotage consolatorio, pratica che affonda le proprie radici nella storia dell’architettura ospedaliera, tra fine‘800 e metà ‘900, quando la costruzione in Europa e in Italia di un nuovo ospedale andava di pari passo con l’accurata progettazione e realizzazione delle aree verdi che dovevano circondarlo e abbellirlo.
Ingressi con aiole variopinte, vasti giardini con piante esotiche e alberi di alto fusto orientati sia al gusto del giardino all’italiana sia a quello all’inglese. Esempi di riuscite equazioni tra forma e sostanza, terapia e guarigione.
Oggi invece c’è qualcosa che non torna riguardo la cura del verde negli ospedali, anche nella nostra regione. Da almeno due decenni le nostre aziende sanitarie hanno trascurato questo tipo di visione e lo dimostrano i tagli frequenti di alberi e l’eliminazione di interi settori di verde che vediamo accadere a Trieste, a Udine e in altre città della nostra regione. È evidente che molti giardini storici che circondano gli ospedali sono andati nel tempo deteriorandosi per vecchiaia delle specie di pregio ma spesso anche per una manutenzione superficiale e carente.
La causa di questo abbandono di prospettiva pare inizi con la strutturazione del Sistema Sanitario su schema aziendale, dove progettazione, cura e manutenzione diretta del verde non rientrano più nelle priorità del servizio di cui gli ospedali, un tempo, si facevano carico con proprio personale qualificato.
Alcuni esempi.
L’ospedale di Udine “Santa Maria della Misericordia” aveva un’area verde centrale dotata anche di una vasta pineta che è stata progressivamente erosa negli ultimi 20- 30 anni dalla costruzione di nuovi edificati.
Nell’ospedale di Cattinara, principale struttura ospedaliera di Trieste, è in progetto l’abbattimento di un’intera pineta all’interno del comprensorio sanitario per far posto al nuovo ospedale pediatrico “Burlo” ed ampliare il civile stesso.
A Gorizia, che godeva nel secolo scorso di una cittadella sanitaria dotata di un manicomio provinciale, un sanatorio e un ospedale civile in cui il verde era stato pensato in modo articolato e scenografico, rimangono tracce del passato solo nel parco dell’ex manicomio provinciale.
È evidente che rispetto al passato sono intervenute modificazioni rilevanti in ambito tecnologico ed a molti la sopravvivenza delle aree verdi dei vecchi ospedali organizzati a padiglioni paiono anacronistiche rispetto ai più recenti criteri dell’ospedalizzazione a strutture monoblocco che hanno il vantaggio di essere meno dispersive e più funzionali, ma il cui principale difetto è la perdita di “visione umanistica”.
Un ospedale è innegabilmente un universo estremamente complesso da programmare, progettare e gestire ma è altrettanto innegabile che ha un impatto maggiore di un tempo sull’ambiente che lo circonda. Un problema di cui poco o nulla si sente parlare.
Per capire che proporzioni abbia il problema è illuminante lo studio dell’AUSL di Cesena (2011) che ha approfondito la questione dell’ecosostenibilità ospedaliera. I dati relativi all’impronta ecologica di un ospedale canadese, con una media di 591 pazienti al giorno e privo di una politica ambientale formale, è stimata 719 volte la sua grandezza in ettari. In questo studio sono stati esaminati i dati relativi al consumo dell’energia, ai beni acquistati (carta, plastica, lattice, metalli, ecc.), ai materiali utilizzati per la costruzione dell’edificio (compresa la CO2 prodotta per fabbricare i materiali), all’energia e alla CO2 prodotta dall’incenerimento dei rifiuti infettivi. Quindi, perché l’ospedale sia sostenibile deve esserlo l’edificio.
Poiché questo importante settore della storia ambientale ha ancora poca letteratura e non gode di alcuna divulgazione, come cittadini siamo spesso spinti a protestare quando si abbattono degli alberi negli ospedali ignorando le altre numerose facce del problema: lo studio afferma infatti che la sanità italiana sconta il prezzo di edifici troppo vecchi ed obsoleti, in cui i margini per interventi di bioedilizia sono pochi ed estremamente onerosi. Si aggiunga che la durata media di un ospedale è scesa dai 100 ai 50/60 anni.
Opportuno destinare quindi le strutture datate ad altro impiego? Impegnarsi nella costruzione di nuove che fin dal progetto tengano conto dei requisiti di bioedilizia e compatibilità ambientale? Ancora una volta è la politica a dover guidare le scelte.
Per approfondire…
Riguardo agli ospedali di nuovissima concezione e con basso footprint gli esempi nel mondo sono numerosi – tra questi il Dell Children’s Medical Center ad Austin in Texas – ed anche se nessun ospedale italiano si trova tra i migliori trenta al mondo circa ecosostenibilità, la dottoressa Casadei (AUSL di Cesena) segnala un caso italiano, il pediatrico Meyer di Firenze, che ha introdotto interessanti innovazioni: un tetto ventilato, infissi con ombreggiamento, griglie per favorire la naturale ventilazione notturna in estate, sistemi tecnologici per la regolazione della luce artificiale interna, impiantistica tecnologicamente avanzata per il risparmio energetico, zone del giardino con certificazione Bio-Habitat.
In FVG ci sono iniziative analoghe?
In rete trovo che al “Burlo Garofolo” di Trieste, sede storica di via dell’Istria, è partito lo scorso gennaio “un progetto pubblico/privato che consentirà di ridurre del 9,5% il consumo di energia primaria, con un risparmio di 151 Tep (tonnellate equivalenti di petrolio) l’anno risparmiati e 331 tonnellate/anno di CO2 di minori emissioni in atmosfera” (da: Irccs Burlo Garofolo tra efficienza e sostenibilità – Tecnica Ospedaliera). Ma queste innegabili migliorie sembrano contraddire, almeno come fonte di spesa, il progetto di “Riqualificazione dell’Ospedale di Cattinara e realizzazione della nuova sede dell’I.R.C.C.S. Burlo Garofolo» partito anni fa, arrivato al definitivo nel 2014 e poi all’esecutivo nel 2021. Quindi si farà il nuovo “Burlo”, che verrà dislocato a Cattinara, dove per far posto al parcheggio interrato verrà abbattuta una pineta di 440 alberi, classificata “bosco”, più altri 79 dell’attiguo parcheggio dipendenti, sostituita da un verde “compensativo” nel soprassuolo del parcheggio che, ribadisce il Comitato spontaneo per la pineta di Cattinara, non potrà sostituire la perdita dell’ecosistema boschivo preesistente, sostenendo che la Regione FVG concepisce progetti inadeguati e tardivi in campo edilizio ospedaliero. Caso emblematico della difficoltà di comunicazione tra poteri locali e istanze della cittadinanza riguardo progetti e manutenzione dei beni pubblici.
Un altro caso interessante va segnalato in Lombardia. Nonostante la debacle del Covid-19, qui si macinano progetti di eccellenza nel campo della sanità ecosostenibile come la futura Città della Salute e della Ricerca che sorgerà nelle aree ex Falck di Sesto San Giovanni a Milano e si baserà su una “concezione del verde come metafora della guarigione”: quattrocentomila metri quadrati di verde, su cui insisteranno 10.000 alberi e un ortofrutteto. La struttura sarà completata nel 2025, costruita interamente secondo criteri di risparmio energetico, avrà tetti a verde o a pannelli solari e la Certificazione Leed per il risparmio energetico. Il progetto è di Renzo Piano che ha alle spalle una committenza ben orientata da tempo su scelte sostenibili (va ricordato che fu proprio l’ex ministro alla Sanità, Umberto Veronesi, a stimolare studi su nuovi modelli ospedalieri).
Piano, sostenuto da altre archistar, va dicendo da anni che “non bastano più una serie di fredde nozioni funzionali, dimensionali ed ingegneristiche per progettare un buon ospedale: è necessario un approccio umanistico.
I tempi sono cambiati: bisogna riflettere sullo stato d’animo di chi subisce direttamente o indirettamente un ricovero e cercare, con la concezione dell’edificio, di rendere questo momento meno traumatico possibile…
Inoltre, la flessibilità deve essere alla base della concezione architettonica, garantendo cambiamenti secondo le esigenze terapeutiche, tecnologiche, organizzative e formali.
Il modello più consono sarebbe quello che prevede vari edifici inseriti nel verde in modo che i flussi di persone verrebbero selezionati e suddivisi per usi” (da www.architetturasostenibile.it).
Un ritorno alla lezione del passato?
La convivenza millenaria tra noi e le piante, a metà strada tra realtà e immaginario, dimostra che se anche gli architetti ed i botanici nazionali più quotati ci stanno lavorando attorno con interesse e fiducia, spingendo verso esperimenti anche arditi come il verde verticale – forse significa che è venuta l’ora di porsi domande sull’eccessivo consumo di suolo e sulla salute dell’ecosistema urbano?
Su come trovare un compromesso di buon senso tra vecchi e nuovi modelli urbanistici e sanitari per una migliore convivenza tra la città ed i suoi abitanti, in cui le piante continueranno a recitare un ruolo irrinunciabile?
Sonia Kucler