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Programmi PSR Leader – Note per una riflessione

Programmi PSR Leader – Note per una riflessione

Programmi PSR LeaderIl problema delle azioni Leader deriva in buona parte dagli adattamenti e dalle strettoie in cui questa progettualità viene costretta nella ricerca della conformità con le leggi e le politiche adottate dall’amministrazione regionale e, prima ancora, nazionale.

 

In pratica i programmi Leader vengono dapprima spogliati di significato attraverso una lettura “nazionale” per poi completare lo stravolgimento in seno alla regione il cui obiettivo, che si materializza con la stesura dei bandi, pare essere quello di riversare anche le risorse europee del Leader non per gli originali scopi dell’intervento, ma per finanziare le normali politiche regionali rimaste sempre più a corto, in quest’ultimo decennio, di risorse economiche da destinare agli interventi classici di sostegno all’economia e di finanziamento di quelle politiche territoriali che dovrebbero essere già finanziate dalla spesa corrente.

Investire risorse Leader per mettere una toppa al calo dei servizi dovuti ai tagli sul welfare o sui trasporti ad esempio, non è un metodo per invertire la direzione ma un incoraggiamento a proseguire nella stessa direzione. Non si intende quindi sostenere che molte delle politiche che ricadono sulle aree riferimento del Leader, aree per definizione fisiologicamente e strutturalmente deboli del territorio, non devono essere destinatarie di interventi di aggiornamento ed innovazione nei servizi, ma qui si rimarca semplicemente il fatto che questo non è opportuno e neanche corretto farlo con le risorse messe in campo dalla programmazione del PSR e segnatamente quelle dell’asse Leader.

Se non si tratta di una truffa sicuramente è un grave errore e non sapremmo dire quale delle 2 eventualità sia la peggiore. La normativa europea tende ad ispirarsi a principi di inclusione e di giustizia sociale e premia le azioni che tendono a sistemi di partnership al maggior livello possibile nell’attuazione delle proprie politiche o direttive.

Nel nostro paese, nel recepimento di tali direttive, si procede con un’applicazione “indolore”, che non costi, che non impegni, che non stravolga l’esistente, che sia conforme agli equilibri in atto e via dicendo procedendo sostanzialmente in questo modo: si attua la Direttiva dell’U.E. riportando pedissequamente nella Legge nazionale gli enunciati ed i principi indicati dall’Unione Europea e poi non si dota lo strumento legislativo né delle risorse umane né materiali per essere messo in condizioni di funzionare e men che meno degli strumenti legislativi e dei regolamenti attuativi coerenti in modo che, di fatto, tali direttive hanno un impatto di innovazione pari a 0 sulla politiche del territorio, in special modo, ed è di tutta evidenza, per i territori rurali.

Questo è la prassi osservata, che per assurdo richiede anche moltissimo tempo per essere confezionata. In questa situazione di oggettiva difficoltà ad implementare politiche e prassi che possono avviare processi di sviluppo alternativi è forte il rischio di andare a riproporre le stesse politiche e quindi le stesse contraddizioni che hanno determinato nel tempo la situazione attuale che rasenta il sottosviluppo. Il pericolo evidente è che una discreto investimento in termine di risorse sia umane e materiali quale rappresentano i programmi Europei si muova in sostanza per riprodurre l’esistente con un’alta possibilità di creare ulteriori fallimenti.

D’altra parte i problemi in queste aree sono tali che è veramente difficile non solo intervenire ma anche solo pensare a quali possono essere gli interventi possibili. Un sistema per bypassare i problemi notoriamente è quello di mettere la testa sotto la sabbia per non vedere cosa c’è davanti e proporre situazioni di comodo o strumentali. Una di queste, duole dirlo, è quella di pensare impiegare le risorse Leader per sostenere la permanenza delle popolazione nei territori emarginati incentivando la creazione dei posti di lavoro in loco.

La soluzione è quella di creare tout court nuovi posti di lavoro in loco? Questi tentativi non sono nuovi, rispetto al passato si presentano con terminologie ed analisi meno rozze, più attraenti e sembrano promettere risultati positivi anche perché tarati su un basso profilo suggerito dalle contingenze. Trent’anni fa la panacea erano le zone industriali-artigianali che si insinuavano nei territori meno serviti, nelle zone più emarginate, dove era chiaro già da allora che sarebbero state un fallimento ma che ancora oggi non è ben percepito di quanto esso lo sia stato in termini economici, culturali ed ambientali.

L’approccio era sbagliato perché dava una risposta errata ad un problema vero, la perdita di centralità dell’ambiente rurale montano con un progressivo inadeguatezza del sistema artigianale e terziario poco e mal indirizzato dai normali strumenti di sostegno e, soprattutto, l’abbandono della pratica agricola e selvicolturale. Questi ambiti economici hanno dovuto sopportare la concorrenza dei territori a forte urbanizzazione con più risorse e capacità di accedere al credito e attenzioni e che potevano contare di una grossissima spinta e sostegno culturale senza che sia stato possibile pensare a riformare il sistema degli interventi di sostegno. In pratica senza un approccio di stampo prettamente culturale ed ambientale è improbabile che si creino le condizioni di base per la riuscita di qualsiasi percorso di implementazione industriale.

E’ lecito aspettarsi quindi che sarà molto difficile osservare una inversione di tendenza in termini di abitanti ed imprenditori in loco per una serie sterminata di motivi, tra i quali vale la pena citare la mancanza di attrattività dei luoghi, che risultano generalmente emarginati ed emarginanti dal lunedì al sabato, e il livello di conoscenze / convinzioni / risorse che sono necessarie ad un imprenditore per fare impresa ed affrontare con buone probabilità di successo anche il solo mercato locale o regionale. Più che parlare di punti di forza e punti di debolezza che si dimostrano strumentali per un’analisi veloce ed addolcita, bisogna concentrarsi e programmare azioni correttive verso i punti di debolezza con l’obiettivo di fare in modo che le condizioni che li contraddistinguono non siano gravemente pregiudizievoli al raggiungimento degli obiettivi.

Un esempio di quale sia la situazione e di come sia difficilissimo intervenire si può vedere in un recente attività di progettazione partecipata portata avanti nel comune di Pinzano al Tagliamento, forse propedeutico a qualcosa di analogo che coinvolga la popolazione nella determinazione del proprio territorio e del proprio sviluppo, lavoro che forse è già conosciuto. Superando discreti problemi organizzativi, logistici e di consenso cui è stato necessario far fronte durante queste ricognizione sul territorio e confronto con la popolazione, questa esperienza rappresenta un patrimonio per coloro che vi hanno partecipato, esprime bene le eccellenze in termine di partecipazione ma mostra altresì il vuoto delle enorme debolezza sociale del contesto sulle quali è necessario investire risorse materiali ma soprattutto umane e di tempo.

Le persone sono diventate a sociali nel terreno stesso della socialità, nei paesi, nelle piccole frazioni, nelle stesse borgate. La grande diffidenza e sfiducia che frena le persone pare difficile da smuovere senza la necessaria attenzioni e strumenti di interlocuzione dedicati. Ci vuole un piano Marshall locale che indirizzi la concentrazione e la passione delle persone verso attività e progetti fattibili, a misura di uomo e a misura di territorio uscendo dalle logiche comuni delle grandi opere, delle concentrazioni di interessi e risorse, delle speculazioni ambientali, della razzia dei beni comuni, del mito dell’economia di mercato e delle economie di scala attraverso le quali hanno distrutto l’ambiente montano e cancellati i presupposti per ogni ipotesi di sviluppo.

Per Legambiente non pare possibile pensare di avviare progettualità alternative senza una seria disamina e coscienza delle dinamiche in atto. Non è possibile avviare imprese “verdi” senza che questi imprenditori, chi dovrà guidarle, non disponga di una più che buona conoscenza del contesto in cui andranno ad operare e dell’assoluta inadeguatezza culturale, burocratica, legislativa, fiscale, finanziaria ed economica in cui saranno obbligati ad operare e che per dipiù riescano ad immaginare un percorso che possa garantire, se non il successo, almeno la coerenza e la continuità della propria esperienza imprenditoriale.

Avviare imprese in tale contesti senza che vi siano buoni presupposti e basi di partenza significa sovraesporle al rischio di fallimento e, quel che è peggio, di lento logoramento con il conseguente ulteriore contributo in termine di depressione economica e sociale apportate al sistema, il che rappresenterebbe ancor più uno smacco all’originario progetto di sostegno allo sviluppo delle aree più deboli.

Al di là delle risorse messe in gioco, di certo i programmi Leader non possono pensare di risolvere una situazione così intricata, se non fungendo da apripista ed esempio di esperienze da riproporre e far evolvere nel futuro. Possono dare un segnale ed un esempio, indicare una via … ma incidere è un’altra cosa e soprattutto non può dipendere solo da tali programmi in modo particolare se si osserva la repentinità dei cambiamenti di scenario in atto, cambiamenti portati, più che dalla globalizzazione in se, dall’incessante processo di concentrazione di ogni tipo di risorsa economica, ambientale, sociale e comune. Che fare?

Una delle chiavi per operare in contesti economici penalizzati emancipandosi dall’insieme dei lacci che appesantiscono le buone progettualità, è quella di attivare attorno all’azienda percorsi e progetti collaborativi e partecipativi in un’ottica fortemente identitaria e comunitaria. Attraverso la condivisione del progetto e l’assegnazione di significati più ampi del margine d’impresa individualistico, passa il sostegno ed il riconoscimento sociale che si porta dietro la sua appendice economica / compensativa. Una volta c’era lo stato che garantiva un equilibrio per le situazione a rischio, ora lo scenario economico sociale è invaso da aspetti speculativi con poche regole che ne limitino gli impatti. Davanti allo scempio di cultura, conoscenze, beni ambientali e paesaggistici ci si limita a dire, anche in senso liquidatorio, che alla gente di montagna manca la mentalità. Quale mentalità e, nel caso, qualcuno avrebbe magari il compito di sollecitarla e indirizzarla questa mentalità?

Le azioni che ci sentiamo di sottoporre all’attenzione degli enti programmatori, che è facile immaginare abbiano spesso coscienza della necessità di inserire elementi di discontinuità, e che meriterebbero di essere valutate e sostenute, sono azioni che vengono prima dell’impresa e che hanno per oggetto l’uomo e l’ambiente in cui vive

1. Incentivare la creazione di Centri di servizio volontario di incontro, ascolto ed elaborazione

2. Assegnare le risorse a progetti di riorganizzazione sociale

3. Mettere in sicurezza il territorio ed avviare esperienze di gestione agricola biologica fondata sulle tradizioni

4. Mettere in sicurezza i beni ambientali

5. Valorizzare i beni artistici minori, anche artigianali e locali

6. Valorizzare e promuovere la bellezza

7. Eliminare / mitigare / trasformare la bruttezza

8. Incentivare incontri, confronti e gli scambi culturali con l’esterno di qualsiasi natura: culturali, imprenditoriali e sociali.

Da ultimo un aspetto che dovrebbe anche questo essere parte integrante della pianificazione di programmi tipo il Leader: Deve essere potenziata o ricreata una vera struttura di servizio in grado di affiancare e supportare il soggetto imprenditoriale nella costruzione e soprattutto nella gestione dell’impresa nelle cosiddette aree svantaggiate, estranee più che arretrate rispetto al modello di sviluppo di tipo industriale. Tecnici o persone che fungano da esperti di economia rurale, di bilanci, marketing territoriale, turismo sociale, conservazione ambientale, gestione e manutenzione del territorio che sappiano in qualsiasi momento di crisi affiancarsi al know-how dell’impresa per rinnovare le competenze e rinforzare le prospettive di crescita e sviluppo.