Il “suolo” della Patria
Invece delle armi, insegniamo ai giovani ad usare pala, piccone e motosega
Nove novembre 1966: sono trascorsi pochi giorni dalla gravissima alluvione che ha colpito intere regioni del Centro e del Nord Italia e che ha avuto il suo culmine con l’esondazione dell’Arno a Firenze e l’eccezionale acqua alta a Venezia. Il Governo nazionale emana il Decreto Legislativo n. 914 che contiene il primo elenco delle località colpite.
Si tratta di un documento fondamentale, indispensabile per circoscrivere l’area interessata dal disastro, per individuare le priorità di intervento ed indirizzare gli aiuti. Della lista fanno parte anche 14 Comuni della Bassa Friulana, a cominciare da Latisana, che ha subìto la seconda esondazione nel giro di due anni, e la città di Pordenone, che all’epoca non è ancora Provincia. Clamorosamente, però, vengono dimenticati i 39 Comuni che appartengono alla Comunità Carnica, l’ente creato dal CLN dopo la guerra, che corrisponde al territorio di quelle che diventeranno in seguito le Comunità Montane della Carnia e della Val Canale-Canal del Ferro, più i Comuni di Venzone, Bordano e Trasaghis. Eppure è proprio qui che si sono concentrati il maggior numero di danni e di vittime. Dei diciotto morti provocati in tutto il Friuli Venezia Giulia da quell’alluvione, ben dodici si devono registrare in Carnia: sette nella sola Forni Avoltri, compreso il Sindaco Riccardo Romanin, precipitato con l’auto nel Degano assieme ad un tecnico e due operai del Comune.
Ne scaturisce una immediata e decisa protesta da parte dei Sindaci che rappresentano un territorio che sta scontando una fortissima emigrazione, gravato dalle servitù militari e che ha già in piedi tutta una serie di contenziosi con lo Stato e con la da poco costituita Regione, contenziosi destinati ad esplodere, l’anno seguente, in una clamorosa sollevazione popolare. Ricordo questi fatti perché, come dimostra l’iniziale attenzione riservata, anche in occasione dell’ultima alluvione, ai rischi che può correre Latisana, le tante lezioni impartite all’indomani di ogni tragico evento atmosferico non sembra siano state sufficienti ad aumentare la consapevolezza che, anche per difendere la pianura, bisogna intervenire in primo luogo dove hanno origine i problemi, cioè in montagna. Dai drammatici eventi atmosferici dello scorso ottobre, che hanno gettato nella desolazione intere vallate alpine, trovano infatti conferma due dati inequivocabili. Il primo è che sono soprattutto i territori montani a subire le conseguenze peggiori, sia per la loro obiettiva fragilità, dovuta alla morfologia, alle caratteristiche dei suoli e alla maggiore intensità delle precipitazioni, sia per la vulnerabilità, che è una conseguenza diretta dello spopolamento e dell’abbandono delle attività tradizionali prodotti dalle logiche economiche e politiche che ormai dominano da decenni.
Un secondo elemento, nuovo, ma non imprevisto, riguarda le caratteristiche dei fenomeni, sempre più estremi, che ci troviamo a fronteggiare. Rispetto alle tradizionali “montane dai sants”, quello che ha impressionato l’ultima volta e che ha prodotto i maggiori d’anni, non è stata la quantità d’acqua, ma l’intensità del vento. Trombe d’aria, che hanno interessato zone di limitata estensione, ne avevamo già viste, ma qui i venti sono arrivati a toccare i 200 chilometri orari sulle cime delle Prealpi Carniche e l’area alpina coinvolta – senza considerare quanto accaduto qualche ora prima nel Sud e Centro Italia o in Liguria – è vastissima. Fatte le debite proporzioni, abbiamo assistito ad una sorta di piccola “tempesta tropicale” del tipo di quelle che i telegiornali ci mostrano abbattersi in altre zone del pianeta. Ai più sfugge, ed è per questo opportuno ribadirlo, che la montagna in questo modo subisce un’altra volta le conseguenze di colpe altrui: delle città e della pianura, dei luoghi, cioé, in cui si concentrano la popolazione, le attività produttive ed il traffico e, conseguentemente, le emissioni dei gas responsabili dei cambiamenti climatici. La Montagna, in conclusione, “paga” due volte. Come seppero fare i Sindaci della Comunità Carnica nel 1966, indipendentemente dalla loro collocazione politica, sarebbe necessario che gli amministratori locali si facessero nuovamente sentire, innanzitutto pretendendo dai rappresentanti istituzionali che vestono con disinvoltura i panni del “soccorritore” con tanto di divisa della protezione civile, una netta e decisa presa di distanze da Trump e dal presidente del Brasile Bolsonaro, vale a dire da quei potenti che non solo negano l’esistenza dei cambiamenti climatici, ma sembra vogliano fare di tutto per procurarci maggiori disastri in futuro, disattendendo anche i blandi accordi internazionali precedentemente sottoscritti dai loro Paesi. In secondo luogo, rivendicando un “risarcimento” per quello che i nostri territori hanno subìto e sono costretti a subire.
Noi crediamo, ad esempio, che, di fronte alla proposta di reintroduzione del servizio militare di leva, caldeggiata dall’attuale Ministro degli Interni e sostenuta anche da un voto favorevole espresso dal nostro Consiglio Regionale, sia giusto rivendicare, in alternativa, l’introduzione di un servizio civile. Non c’è bisogno ed è del tutto insensato insegnare ai nostri giovani a maneggiare le armi, sarebbe molto più utile fargli imparare ad utilizzare pala, piccone e motosega e a conoscere l’ambiente ed il territorio. Un servizio civile, della durata di alcuni mesi, che potrebbe in seguito diventare obbligatorio, potrebbe essere richiesto ed introdotto sperimentalmente proprio alla luce della recente emergenza.
Si tratterebbe di un servizio alternativo a quello militare e diametralmente opposto rispetto alla naja del passato, che è legata all’imposizione di “servitù” e alla presenza di poligoni di tiro che, tra l’altro, da tempo le comunità locali chiedono di dismettere. Ci sarebbero vantaggi sia per i giovani – che oltre alle attività pratiche avrebbero la possibilità di conoscere il territorio e la sua storia e geografia – che per i territori – che vedrebbero svolte quelle attività di manutenzione che i pochi anziani rimasti non sono più in grado di effettuare e permetterebbero di rianimare i paesi, utilizzare alcune delle caserme che rischiano di andare in disfacimento e ospitare attività culturali che altrimenti non si potrebbero fare per mancanza di numeri sufficienti. Insomma, a cento anni dalla fine del primo conflitto mondiale, si tratterebbe di capire che non è più tempo di difendere il “sacro suolo della Patria”, come successe sul Piave, dopo Caporetto, ma di difendere il “suolo” e basta.