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Montagne di roccia e montagne di carta

Montagne di roccia e montagne di carta

I recenti accadimenti che hanno coinvolto il sentiero Cai 227 che raccorda il Rifugio Chiampizzulon a Malga Tuglia, posto a scavalco tra i confini di Rigolato e Forni Avoltri, sulle Alpi Carniche, inducono a una riflessione complessiva sulla costruzione delle strade forestali fatte e da fare. Occorre premettere che non c’è alcun pregiudizio sulle strade che in via ordinaria servono alla gestione forestale e pastorale; ultimamente però tali servizi sono stati espansi al settore turistico e sportivo, con la conseguenza di spingere tali infrastrutture in luoghi alpini sempre più impervi, non adatti ad accogliere masse di frequentatori, magari inseguendo uno sviluppo (turistico?) montano sui generis e all’insegna di un non esplicitato, ma ben evidente, “costi quel che costi”. I casi che di seguito sono sommariamente illustrati evidenziano tutte le criticità di scelte,
progettazioni, procedure e lavori che, a nostro avviso, sono sommamente superficiali e carenti per lo meno di una seria pianificazione territoriale.

Il progetto della Comunità di Montagna della Carnia “Miglioramento infrastruttura viaria “Sostasio – Monte Talm – Casera Tuglia – (ex) Confine Veneto”, nei Comuni di Prato Carnico, Ovaro, Rigolato e Forni Avoltri”, per il solo tratto compreso tra Casera Cjampiut di sotto e Casera Tuglia, ha trovato forti resistenze da parte di associazioni ambientaliste e gruppi di cittadini ben decisi a conservare il sentiero 227 che attraversa
ambienti privi di boschi produttivi e di pascoli utilizzabili, ma di eccezionale valore naturalistico e paesaggistico, senza nulla togliere alla raggiungibilità veicolare dei due locali viciniori: il Rifugio Cjampizzulon e la Malga Tuglia. Gli oppositori, spesso accusati di ambientalismo salottiero, hanno ben documentato con tanto di perizie geologiche lo stato dei luoghi, confutando molte certezze progettuali basate, tra l’altro, su errori tecnici. I circa due chilometri di viabilità progettata insistono su paleofrane a grandi blocchi instabili, canaloni interessati da rovinose colate detritiche e sovrastati da imponenti pareti calcaree densamente fratturate. Naturalmente i committenti si ritengono abbondantemente supportati da tutte le autorizzazioni rilasciate dalle autorità competenti, peccato che la montagna “se ne freghi” di quegli autorevoli pareri e nulla osta. La frana a blocchi staccatasi dal Monte Pleros il 4 luglio 2023, 500 metri cubi di roccia, ha infatti travolto il sentiero provocando profondi solchi e depositandovi nei dintorni enormi massi.
E non è stato il caso a impedire che gli uomini e le macchine operatrici impegnate nel cantiere stradale non venissero travolti dalla frana, dato che i lavori erano stati momentaneamente sospesi proprio su istanza di quegli “ambientalisti”. La lezione imposta dal Pleros alla caparbietà umana dovrebbe essere sufficiente a far capire che la montagna di roccia è ben altro rispetto alla “montagna di carte”. Ma si rendono conto i promotori della strada che il pericolo oggettivo, nella fattispecie il pericolo idrogeologico intrinseco a tutte le montagne, a loro noto e pubblicamente sbandierato, si trasformerà in rischio a cui sottoporranno con pervicace volontà i fruitori (escursionisti, ciclisti, automobilisti e motociclisti più o meno legittimati) dal momento in cui l’opera sarà realizzata?

Il caso ha pure un precedente forse ancora più emblematico: la strada realizzata due anni fa che collega Malga Saisera al Rifugio Grego, in Comune di Malborghetto-Valbruna. Tralasciando le difformità realizzative rispetto al progetto, la carreggiata larga da 6 m a oltre 15 m sui tornanti, senza contare gli enormi scavi di scarpata, rispetto ai 4 m previsti, e il conseguente annullamento del bosco di faggi secolari e l’antico sentiero, va segnalato l’innesco di un vasto movimento franoso, probabilmente provocato dall’avanzamento dei lavori di scavo. Frana tuttora incombente su un tornante della strada. È lecito chiedersi in questo caso se serve un varco di questa portata per raggiungere un rifugio agevolmente servito dalla strada della Val Dogna. E poi quale e quanta perizia è stata messa in fase di progettazione per affrontare a cuor leggero un versante visibilmente instabile? E ancora chi paga i danni? In questo caso si denota una ingiustificabile superficialità e una chiara sottovalutazione dei segnali che la montagna, anche per bocca dei suoi abitanti, invia a chi dovrebbe osservare e ascoltare, prima di decidere e agire.

Il terzo caso ha sollevato ampie discussioni a seguito degli eventi denominati tempesta Vaia, quando la Regione ha inteso raggiungere il Rifugio Marinelli dall’alta Valle del Bût con una strada carrozzabile, utilizzando le risorse finanziarie messe a disposizione per porre rimedio ai danni provocati della tempesta nell’ottobre 2018. Allora i soliti “ambientalisti” sono insorti partecipando alla conferenza di servizi e portando, anche in quel caso, solide motivazioni di ordine naturalistico per limitare i danni e far depennare dal progetto una variante che avrebbe raddoppiato i percorsi con lavori tanto inutili quanto nocivi all’ornitofauna locale. Attualmente i lavori stanno avanzando fino al laghetto Plotta con ancora, in discussione, l’allargamento della mulattiera realizzata durante la grande guerra a strada carrozzabile, con motivazioni risibili, che dai pressi del laghetto con due rampe raggiuge il rifugio. In questo caso una relazione geologica di parte sconsiglia l’aggressione con escavatori alle due  rampe, pena il rischio di colate detritiche sulla prima e crolli della parete a blocchi sulla seconda rampa, dapprima in testa ai lavoratori e, nel tempo, anche su eventuali escursionisti.

Questi tre esempi, che travalicano i pur importanti aspetti ambientali e paesaggistici, sono l’esempio di come ormai si sorvoli anche sulla necessità di tutela della vita umana pur di sventolare la bandiera dello sviluppo della montagna a tutti i costi. Eppure i limiti che la montagna vera, di roccia e di ghiaioni, di terrazzi alluvionali e di paleofrane, impone in maniera così evidente ai suoi assalitori non riescono ancora a scalfire il sonno della ragione di alcuni amministratori dei beni pubblici. Oggi le persone percorrono mulattiere e sentieri alpini, sentieri attrezzati e ferrate, assumendosi le proprie responsabilità: è questa una scuola di vita irrinunciabile e aperta a tutti, avendo la possibilità di imparare a conoscere i propri limiti umani, oltre a imparare de visu le regole della natura. Aprire in questi luoghi strade carrozzabili, non indispensabili alla gestione del territorio (boschi e pascoli), significa banalizzare non solo un ambiente selvaggio ma anche deprimere la ricerca di libertà nell’avventura e, soprattutto, il senso di responsabilità. Recentemente infine abbiamo dovuto accusare un’altra minaccia al buon governo del territorio montano. Essa è celata in nuce all’interno del “Regolamento recante modalità e criteri per la concessione di contributi per interventi di viabilità forestale di cui all’articolo 41 ter, comma 4, lettera d), della legge regionale 23 aprile 2007, n. 9 (Norme in materia di risorse forestali), in attuazione dell’articolo 41 ter, comma 14, della medesima legge.” approvato con D.P.Reg. del 17 marzo 2023/Pres. Qui si intende finanziare strade forestali “munltifunzionali” remunerate al 100% a fondo perduto a proprietari privati e pubblici di terreni e a imprese boschive, estendendo chiaramente la possibilità d’intervenire in zone soggette a vari vincoli: idrogeologico e paesaggistico, ma anche in aree tutelate dalla Direttiva Habitat (rete Natura 2000), e in aree protette come parchi e riserve naturali. Ciò significa incentivare i soggetti di cui sopra a ricercare superfici che siano boscate oppure no da infrastrutturare quale alibi per emungere soldi alle casse del bilancio regionale, magari accampando la motivazione dello sviluppo turistico montano. Ma di quale turismo parliamo? Quello di massa che sicuramente non si sobbarca centinaia di metri di dislivello e chilometri a piedi o in bicicletta, anche a pedalata assistita, lungo magnifiche strade forestali definite “camionabili” (servono davvero costose e deturpanti strade camionabili ai ciclisti?), o quello motivato e responsabile che preferisce muoversi lungo sentieri e mulattiere senza doversi scansare al passaggio abusivo di auto e moto? Perché, come visto negli esempi di cui sopra, ormai le “camionabili” non si fermano neppure di fronte a canaloni scoscesi, frane, paleofrane, dirupi, pareti di roccia instabili come dimostrato dall’evidenza di un paio di fatti catastrofici acclarati.

È una scelta di fondo che va fatta prima di intraprendere qualsiasi tipo di iniziativa infrastrutturale resa appetitosa dalla pura risorsa finanziaria. Il regolamento citato esordisce con l’obiettivo della razionale gestione del territorio di valenza silvo – pastorale, d’accordo, ma a monte serve una pianificazione seria che non sia uno zimbello spennato da cambiare a ogni desiderata del ras di turno. Tempo fa il Cai regionale ha approvato una mozione in cui si chiedeva agli amministratori regionali una moratoria sulla realizzazione di nuova viabilità fino alla redazione del piano della viabilità forestale attraverso il completamento del Piano regionale forestale, voluto dalla legge regionale 9/2007 e dal Testo unico forestale D.Lgs. 34/2018. Ecco questo sarebbe un valido strumento di governo del territorio su cui ragionare attraverso le note procedure di VAS, di VIA e di VINCA alle quali tutti i portatori d’interesse possono partecipare.

E infine gli antichi passaggi come pedradis, sentieri, mulattiere realizzate durante la grande guerra, le cui caratteristiche costruttive presentano opere d’arte in pietra squadrata a mano con sudore e sangue, non sono forse beni preziosi da mantenere e promuovere, anziché frantumare sotto i cingoli di escavatori che aprono strade al (supposto) turismo di massa?

A cura di Mario Di Gallo,

Dottore forestale e guida alpina
Legambiente FVG, settore foreste

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